LO SPIRITO DEL DONO E IL VOLONTARIATO: amore verso l’umanità o individualismo socialmente accettato?
Volontariato come fatto sociale.
L’attività di volontariato, nella dimensione in cui corrisponda a un'attività autodeterminata e senza fini di lucro, porta con sé una presupposizione che collega il concetto di volontario al concetto di gratuità e disinteresse, il che rende il volontariato un fatto sociale universalmente accettabile, anzi, auspicabile.
Nella miriade di associazioni di volontariato che operano sul territorio, ufficiali o ufficiose, laiche o di stampo religioso, si trovano a operare oltre 6 milioni di volontari in tutta Italia[i]; queste persone decidono di devolvere il loro tempo e spesso i loro soldi per un fine più grande: per aiutare gli altri.
L' altruismo, inteso come inclinazione o amore verso il prossimo, è alla base dello spirito del volontario e permea le azioni del volontario stesso in maniera trasversale rispetto il suo raggio di operatività (sociale, sanitario, logistico, divulgativo, ausiliario, etc…).
Perché faccio volontariato?
Personalmente svolgo attività di volontariato dal 2009, prevalentemente in ambito sanitario a favore dei senza fissa dimora e delle vulnerabilità sociali sul territorio, e la domanda che mi viene rivolta nella maggior parte dei casi è: << perché lo fai?>>.
Come dico sempre nei corsi, il volontario deve avere un perché abbastanza forte per poter fronteggiare le inevitabili frustrazioni che il volontariato stesso a lungo andare può causare.
A questa domanda mi piacerebbe molto rispondere che lo faccio per il prossimo, oppure per Dio, per l'umanità, per la Patria o per la salvaguardia dei diritti umani; dal mio punto di vista tali risposte servono a edulcorare una realtà molto meno romantica, poiché personalmente ciò che faccio non lo faccio per nessun altro oltre che per me stesso, perché amo quello che faccio, mi diverto mentre lo faccio e mi sento appagato dal farlo. In virtù di questo principio, nonostante l’attività volontaria per definizione non sia un’attività remunerata, nei limiti del possibile la svolgo molto volentieri, non per salvare il mondo, piuttosto per arricchire me stesso e nel contempo aiutare chi ha bisogno di aiuto.
Volontariato come “dono”.
Il volontariato può essere inteso come una dinamica nella quale si dona il proprio tempo o le proprie risorse fisiche, economiche, morali o intellettuali e può essere ricondotto a un fenomeno sociale nel quale vi è un soggetto che dona un bene a un ricevente e apparentemente non riceve nulla in cambio.
Collego a questo discorso un libro di Marcel Mauss (1872-1950), uno dei padri fondatori dell' etnologia francese, intitolato "saggio sul dono"[ii], una pietra miliare dell’ antropologia culturale.
Il dono viene definito come una prestazione con carattere volontario e apparentemente libero e gratuito e che assume la forma del regalo e dunque un trasferimento disinteressato e volontario di un bene da un donatore ad un destinatario.
In questo libro l'autore descrive l'importanza del dono, intendendolo come fatto sociale totale, in grado di coinvolgere gran parte delle dinamiche della comunità, creando, rafforzando e conservando i legami comunitari tra individui, famiglie, tribù e sessi.
Lo spirito del dono, foto scattata a Roma nel 2014
Il dono come fatto sociale: il punto di vista dell’antropologo.
Il saggio sul dono prende in esame gli studi di diversi antropologi tra i quali Franz Boas[iii] e Bronisław Malinowski[iv], circa le dinamiche sociali di diverse culture aborigene, che fanno del dono la base dei legami sociali, intercalati nello sviluppo o nella creazione della società stessa.
Nello studio di Malinowski intitolato Argonauti del Pacifico Occidentale, pubblicato la prima volta nel 1922, l’autore studia gli abitanti delle isole Trobriand dell’Oceano Pacifico e identifica un rituale di scambio simbolico di doni chiamato kula, effettuato tra le popolazioni delle diverse isole e utilizzato per la creazione di rapporti di fiducia. I partecipanti compivano viaggi anche di centinaia di chilometri in canoa per scambiarsi doni che consistevano in collane di conchiglie rosse (soulava), e braccialetti di conchiglie bianche (mwali), lo scambio poteva avvenire solo tra oggetti diversi: braccialetti per collane e viceversa. Gli oggetti dovevano circolare in continuazione, e restare nelle mani del possessore solo per un periodo limitato di tempo per poi essere barattati nel corso di altre visite.
Una foto degli anni venti nella quale si ritrae un kula, ovvero uno scambio rituale di collane e bracciali da parte degli indigeni delle isole Tobriand dell’Oceano Pacifico.
Durante questa “cerimonia” coloro che partecipavano, anche se appartenenti a tribù nemiche, ricevevano una completa immunità, in virtù di regole prestabilite collegate al concetto animistico di spirito della cosa donata. Poiché contravvenire alle regole di immunità e di scambio era considerato di cattivo auspicio, se non una maledizione (l’avarizia e l’avidità sono duramente punite secondo le credenze locale), il kula diventava un momento di coesione sociale di villaggi diversi, detto in termini odierni, di federalizzazione dei diversi villaggi, alla base di dinamiche sociali ed economiche più complesse. Lo spirito del dono, che secondo alcune tradizioni melanesiane corrisponde a una parte del Mana, ovvero della forza vitale del donatore, passa all’interno dell’oggetto donato, e lo si trova anche presso la cultura dei Maori come un potere vago (Hau), in grado di ritorcersi contro coloro i quali contravvenivano alle regole imposte dalla collettività.
Secondo Mauss la società stessa è nata da relazioni basate sul dono, che nonostante sia un atto unilaterale, disinteressato e volontario, richiede intrinsecamente di essere prima accettato e poi contraccambiato, divenendo così soggetto all’obbligo di restituzione.
Presso tutte le società "primitive", vi è una triplice obbligazione morale attorno al dono, ovvero dare, ricevere e ricambiare, e solo attraverso questi tre elementi il dono può avere una valenza sociale ed essere un fatto sociale totale.
Secondo l’antropologo francese, il dono è tuttavia ambiguo come fatto sociale, non è assolutamente gratuito, poiché se non ricambiato genera una asimmetria di status tra chi dona e chi riceve, definendo una sorta di supremazia a carico di chi compie l’azione di donare verso colui che riceve il dono.
Questo punto viene ripreso dall’antropologo tedesco Franz Boas (l'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, 1897) mentre parla del potlatch, ovvero un rituale di alcune tribù di Nativi Americani, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati "di prestigio". L'essenziale di questo rituale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso lo abbiano perso.
“Ma il motivo di questi doni e di questi sperperi forsennati, di queste perdite e queste distruzioni folli di ricchezza non è in nessun grado disinteressato, soprattutto nelle società dove è in uso il potlatch. E’ attraverso i doni che si stabilisce la gerarchia tra capi e vassalli, tra vassalli e seguaci. Donare, equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto; accettare senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso”
(M.Mauss, Saggio sul dono)
Doni materiali e non materiali: tempo, risorse intellettuali, emozioni, sangue, organi.
Come abbiamo detto all’inizio, non si dona soltanto un bene fisico, ma la donazione ha spesso dei caratteri molto meno materialistici, in quanto possiamo donare il nostro tempo, le nostre risorse intellettuali, donare emozioni attraverso rapporti intimi, oppure possiamo donare parti del nostro corpo come per esempio sangue, il midollo osseo oppure in casi particolari i nostri organi.
Gli organi possono essere donati nel post mortem previo consenso scritto o da parte dei congiunti del defunto o mediante una volontà pre-costituita da parte del donatore.
Per quanto riguarda la donazione di organi da vivente, il donatore è in genere un parente stretto, come una sorella, un fratello, madre o padre, motivati dunque da criteri di appartenenza familiare , ma in casi particolari è possibile che il donatore sia anche il coniuge o un estraneo purché biologicamente compatibile, anche in questo caso la motivazione al donare segue dei criteri di tipo affettivo o basati sul principio del dovere morale.
Le basi psicologiche del valore.
Un errore è quello di pensare che il concetto di valore sia collegato a una variabile puramente di tipo materiale e quantificabile solo secondo standard di tipo economico. Nulla di più sbagliato, poiché, come studiato dall’antropologo Gregory Bateson e dallo psicologo Abraham Maslow[v], le leve motivazionali più alte degli esseri umani basano la loro esistenza su criteri di identità (ovvero come percepisco me stesso e come devo essere per realizzarmi), e di valori, quest’ultimi intesi dallo studioso di PNL Robert Dilts[vi], come “criteri di importanza” e rispondono alle domande: <<Perché lo faccio?>> oppure << Cosa è importante per me?>>.
In base ai differenti valori individuali, come la gratitudine, la sensazione di appartenenza, oppure la sensazione di essere amati oppure apprezzati, l’emozione derivante l’azione volontaria può diventare una merce di scambio molto più appetibile del semplice denaro, da qui l’aforisma <<il volontario non può essere pagato perché le sue azioni non hanno prezzo>>.
Il lato oscuro del volontariato.
Su questo punto possiamo dunque concludere che il volontariato sia a tutti gli effetti un atto sociale totale come il dono, e che dunque può essere usato sia per instaurare rapporti sociali con persone meno fortunate, dunque utile nel riparare un tessuto sociale sfaldato, ma può anche essere usato per accrescere il proprio ego, nutrendolo con apprezzamenti e sentimenti di riprova sociale. Il principio della riprova sociale è un’altra leva motivazionale fondamentale in molte dinamiche di volontariato, poiché in certi versi trova il suo perno nella convinzione di poter essere etichettati come “individui socialmente utili”, “persone dal cuore buono”, oppure “degni figli di Dio”. Questo tipo di volontario in genere ha di base una serie di frustrazioni nella sua vita ordinaria, e cerca una vita “stra-ordinaria”, nel volontariato (fenomeno che Emile Durkheim, sociologo e antropologo francese definirebbe effervescenza collettiva).
I taluni casi un bisogno morboso di questa dimensione “stra-ordinaria” può spingere il volontario a eclissare la sua dimensione “ordinaria” e con essa la sua identità lavorativa/sociale o in casi estremi trascurare la propria famiglia/relazioni extra volontariato. In casi numericamente limitati, come avviene nei giochi di ruolo che assumono caratteri patologici[vii], il volontario non riesce a dissociare la sua identità nell’ambito dell’organizzazione dalla sua identità ordinaria, causando a se stesso delle difficoltà di adattamento, che se non gestite possono sfociare in isolamento ed emarginazione da ambedue i contesti sociali. Non bisogna mai dimenticare, che per quanto possano essere “stra-ordinarie”, le dinamiche sociali all’interno delle attività volontarie sono comunque regolate da relazioni tra individui psicologicamente differenti, e presentano tutte le difficoltà di comunicazione presenti nei rapporti tra esseri umani.
Ovviamente essendo il volontariato un fenomeno umano, come tutti i fenomeni umani può avere anche dei riscontri collaterali di tipo materiale/economico, o essere usato per fini esterni all’associazione; sul piano etico tali comportamenti possono essere collettivamente ritenuti deprecabili e giudicati immorali (es. utilizzo dei mezzi/risorse di servizio per le proprie attività private, oppure utilizzo di links sociali per fini di propaganda politica/lavorativa, fino ad arrivare a atti di furto/truffa a scapito dell’associazione o dei propri assistiti).
A quest’ultimo tipo di volontario possiamo aggiungere una tipologia di attori sociali, magari posizionati su una situazione gerarchica favorevole, che attraverso disposizioni utilizzano volontari mossi da principi morali al fine di arricchire se stessi oppure ottenere posizioni di prestigio (sia dentro che fuori dal mondo associativo); quest’ultimo individuo tuttavia appartiene usualmente a posizioni abbastanza elevate sulla linea gerarchica da poter essere libero di trasfigurare, in una eterogenesi dei fini (conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali), azioni dubbiamente morali in azioni necessarie per il mantenimento della struttura stessa dell’associazione.
Cosa possiamo salvare del volontariato?
Personalmente ritengo che la nostra struttura sociale abbia bisogno di persone che accettino la gratitudine e l’appagamento come gettone di scambio aldilà del materialismo, poiché il volontariato, se fatto in maniera sana è un motivo di crescita sia sul piano morale, ma anche si quello intellettuale e soprattutto sociale.
Coloro che si affacciano al mondo del volontariato, hanno, dal mio punto di vista la possibilità di poter fare del bene agli altri e soprattutto del bene a loro stessi, non negando l’individualismo alla base dei comportamenti umani, ma abbracciandolo e accettandone l’esistenza. È importante dosare molto bene le proprie energie durante queste attività, per evitare di essere assorbiti da dinamiche che possono portare a decidere, in un arco di periodo più o meno lungo, di abbandonare l’associazione, e con essa, ciò che può essere compiuto per una struttura sociale ormai prossima alla disgregazione.
AUTORE DELL’ARTICOLO: Dott. Marco Matteoli, ufficiale medico del Corpo Militare della Croce Rossa, specialista in Diagnostica per Immagini e medico volontario della Croce Rossa Italiana. Attualmente studente di Cooperazione Internazionale e Sviluppo all’Università di Roma “Sapienza”
Email: marcomatteoli@email.it
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BIBLIOGRAFIA
[i] Il Post. (2017). Il volontariato in Italia in 10 numeri - Il Post. [online] Available at: http://www.ilpost.it/2014/07/28/rapporto-istat-volontariato/
[ii] Mauss, M. (2002). Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Piccola Biblioteca Einaudi Ns
[iii] Fabietti, U. (2011). Storia dell'antropologia. Bologna: Zanichelli.
[iv] Malinowski, B. (2015). Argonauts of the western pacific. [Place of publication not identified]: Routledge.
[v] Maslow, A. and Frager, R. (1987). Motivation and personality. New Delhi: Pearson Education.
[vi] Dilts, R. (1980). The Study of the structure of subjective experience. Cupertino, Calif.: Meta Publications.
[vii] Papaboys 3.0. (2017). Giochi di ruolo: l'insidia è a portata di mano. I genitori lo sanno?. [online] Available at: http://www.papaboys.org/giochi-di-ruolo-linsidia-e-a-portata-di-mano-i-genitori-lo-sanno/