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L’EFFETTO LUCIFERO: quando i comportamenti malvagi vengono socialmente accettati

Nella società civilizzata non esiste alcuna persona, che dotata di una morale, veda qualcosa di etico in mostruosità come genocidi, persecuzioni di massa o attentati terroristici; tuttavia la storia ci insegna che esistono situazioni nelle quali un individuo o un gruppo di individui, moralmente ineccepibili, possano essere fautori di atti disumani.

Tra i vari esempi, nell’articolo prendo in considerazione i comportamenti dei medici tedeschi che hanno preso parte al progetto T4 del regime nazista degli anni quaranta, volto all’eutanasia sistematica dei disabili e dei malati mentali [1].

Numerosi studi psicologici e sociali cercano di spiegare la psicologia del male, ovvero lo studio dei fattori che inducono una persona normale a compiere atti malvagi. All’interno di questi studi, non possiamo fare a meno di trattare di ciò che verrà definito dal Prof. Philip Zimbardo come “effetto Lucifero” [2].

PERCHÉ “LUCIFERO”?

‹‹ Perché sei caduto dal cielo Lucifero, astro del mattino, figlio dell'aurora, perché sei stato messo a terra signore dei popoli?›› con queste parole, l'Antico Testamento, ma anche lo scrittore John Milton, nel libro il paradiso perduto [3], descrivono la caduta del serafino o arcangelo Lucifero, dalla perfetta bellezza e beatitudine alle tenebre, in qualità di ciò che poi verrà definito Satana, Diavolo o Maligno.

Il termine Lucifero significa letteralmente portatore di luce, in quanto tale denominazione deriva dall'equivalente latino Lucifer, composto di lux (luce) e ferre (portare), e corrisponde, oltre all'arcangelo ribelle della mitologia giudaico cristiana, anche a divinità greche e romane come il Dio greco Phosphoros e il Dio latino Lucifer [4], oltre a essere secondo alcune interpretazioni luciferiche e in maniera indiretta, il primo angelo nominato nella Bibbia, quale forza esecutiva dell'ordinativo ‹‹sia la luce›› presente nella Genesi, ovvero il primo libro del vecchio testamento (Gen 1:3).

La letteratura, la cinematografia, la new age, fino a movimenti culturali, religiosi e neo religiosi, ci offrono interpretazioni quanto mai varie di questa figura dai tratti ambivalenti.

Nella teologia Cristiana è verità dogmatica che Lucifero rappresenti la personificazione del male [5], mentre in alcune correnti esoteriche e sataniste, in parte influenzate dagli scritti di Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), la fondatrice della società teosofica [6] e di Aleister Crowley, fondatore del moderno occultismo [7], Lucifero/Satana viene spesso identificato come un agente della libertà intellettuale e spirituale.

Ci sono anche altre correnti sataniste, alcune delle quali nate e sviluppate attraverso internet e social network [8], che identificano in Lucifero il principio del "bene", poiché secondo talune interpretazioni, sia Dio in realtà a rappresentare il male, poiché ha voluto negare agli uomini la conoscenza, offerta invece da Lucifero sotto forma di serpente dell'Eden [9]. Tali interpretazioni non sono riconosciute dalle religioni ufficiali e il fenomeno è limitato a gruppi isolati.

Immagine: "Lucifero" dell'artista italiano Roberto Ferri

Nell’Islam la figura del Diavolo prende il nome di Iblis, ha tratti simili a quello cristiano, poiché anche in questo caso è rappresentato come un angelo caduto, tuttavia nella religione islamica non viene raffigurato come nemico di Dio come avviene nel cristianesimo, ma come nemico e ingannatore solo del genere umano, al quale non ha voluto sottomettersi.

Rifacendosi appunto alla visione cristiano cattolica, che vede in Lucifero un angelo ribelle trasformato in maligno, nel 1971, il Dott. Philip Zimbardo ha coniato il termine “effetto Lucifero”, ovvero una trasformazione comportamentale in senso negativo di un individuo socialmente ineccepibile. Tale trasformazione viene attuata sotto un’influenza sociale o istituzionale che possa portare alla perdita della responsabilità individuale; in questo modo vengono a mancare i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna e la paura così come quelli che inibiscono l'espressione di comportamenti distruttivi e antisociali [10]. Tale termine fu attribuito ai risultati del suo esperimento condotto a Stanford nel 1971

L’ESPERIMENTO CARCERARIO DI STANFORD

L'esperimento carcerario di Stanford fu un esperimento di tipo psicologico condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Questo esperimento si prefiggeva di osservare il comportamento umano in gruppo in cui a ogni individuo era stata data un’identità fittizia.

L'esperimento prevedeva l'assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all'interno di un carcere simulato.

Furono selezionati ventiquattro volontari maschi mentalmente sani, di ceto medio e incensurati; in maniera casuale sono stati divisi in due gruppi: un gruppo di detenuti e un gruppo di carcerieri. Tutto era organizzato in maniera dettagliata, dal colore delle uniformi ai comportamenti da tenere dall’una e dall’altra parte.

I risultati di questo esperimento dopo solo due giorni si mostrarono drammatici: le guardia in maniera graduale iniziarono a intimidirli e umiliarli, costrinsero i prigionieri a subire umiliazioni quali cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. I detenuti di contro si strapparono le divise di dosso e si barricarono all'interno delle celle inveendo contro le guardie, che a fatica riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa.

Dopo cinque giorni i prigionieri mostrarono evidenti disturbi emotivi e isolamento, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l'esperimento prima del tempo.

Trasponendo i risultati di questo esperimento ai giorni nostri possiamo osservare, soprattutto nelle dinamiche di gruppo, o in contesti nei quali vi sia una de-responsabilizzazione delle proprie azioni, che la violenza e le azioni assolutamente non praticabili dal singolo individuo possono diventare naturali ed eseguibili.

A causa del cosiddetto principio di riprova sociale e della fittizia divisione della responsabilità tra i membri di un gruppo possono avverarsi azioni di impensabile violenza, fino alle persecuzioni razziali o allo scatenamento di guerre; lo studio è stato pensato anche per comprendere i motivi dell’insensata ferocia dei carcerieri nazisti nei campi di concentramento.

Durante gli anni di assistenza su strada, ho visto scatenarsi diversi episodi di violenza collettiva: nel 2012 durante la mia attività volontaria mi sono trovato a gestire, purtroppo senza successo, un clochard russo gravemente ustionato. L’assistito mi raccontò che alcuni adolescenti del quartiere Parioli di Roma, per puro spirito goliardico, nel cuore della notte, gli dettero fuoco con una bottiglia di benzina; purtroppo, nonostante ripetute medicazioni e terapie antibiotiche, le molteplici ustioni diedero seguito a una sepsi severa e all'exitus.

Impossibile, su questo filo conduttore, non pensare a uno dei fatti di cronaca comparsi da poco nei telegiornali, ovvero la morte del giovane Niccolò Ciatti, un ragazzo italiano pestato a morte da un gruppo di ceceni fuori da una discoteca spagnola; in questo caso però l’effetto Lucifero non lo attribuirei ai tre aggressori, ma a un gruppo di ben dieci ragazzi, che nonostante la superiorità numerica, non hanno mosso alcun tentativo di aiuto durante il pestaggio, sempre, a mio avviso, a causa di una fittizia divisione delle responsabilità all’interno del gruppo.

Gli episodi di cronaca da citare sarebbero infiniti, questi solo come esempio di quanto potente sia la riprova sociale e di quanto la mente degli esseri umani, per quanto evoluta, sia comunque così vulnerabile a certe dinamiche, da un certo punto di vista primordiali.

IL PROGETTO T4: LO STERMINIO DEI DISABILI DURANTE IL REGIME NAZISTA

Settanta anni fa, al termine della Seconda Guerra Mondiale, veniva scoperto l’orrore di dei campi di sterminio nazisti; su questo argomento è stato detto molto e scritto anche di più, tuttavia il progetto di rifondazione dell’umanità descritto nel Mein Kampf [11] è passato prima attraverso un altro tipo di olocausto, chiamato “Aktion T4” [12], un programma segreto attraverso il quale fu progettato uno sterminio di disabili, malformati e malati mentali. Parallelamente venne introdotto il progetto Lebensborn [13], che mirava a selezionare e far accoppiare individui dai caratteri fenotipici ariani (occhi azzurri, capelli biondi e ascendenti ariani puri) in modo da ripopolare la componente nordica della stirpe germanica. Il progetto T4 fu l’anticamera dell’olocausto, con il quale, attraverso teorie semi-scientifiche si cercò di giustificare lo sterminio delle razze impure, in quanto azione nobile e necessaria per la selezionare di una razza dominante [14].

Manifesto di propaganda nazista a favore dell’eliminazione dei disabili

Seguendo l’ideologia nazista del super-uomo (concetto distorto dell’ oltre-uomo descritto da Friedrich Nietzsche, ma che in realtà non ha alcuna correlazione con esso [15]), quasi la metà dei medici tedeschi degli anni quaranta presero parte a questo piano di sterminio, che prevedeva l’eutanasia e la sterilizzazione dei soggetti “deboli” [16]. Tale progetto portò alla morte di 70.000 disabili in età adulta [17] , di 5000 bambini malformati [18] e di 200.000 individui affetti da malattie mentali [19]. Parallelamente il progetto di sterilizzazione interessò 400.000 individui affetti da schizofrenia, disturbi maniaco-depressivi, epilessia e alcolismo cronico [20].

L’eutanasia veniva condotta dai medici aderenti alle ideologie naziste, o mediante iniezioni letali di morfina, scopolamina o luminale [21], oppure attraverso dei rigidi programmi nutrizionali (basato solo su verdure bollite), che portavano a morte il paziente in poche settimane. Le morti per inedia sembravano “naturali” e non suscitavano alcun allarme sociale, né particolare coinvolgimento emozionale da parte degli operatori sanitari coinvolti.

Tali azioni, allontanavano incontrovertibilmente i medici dal loro giuramento di Ippocrate, rendendoli parte integrante della macchina che di li a poco avrebbe portato alla “soluzione finale”, l’olocausto nei campi di concentramento.

L’uccisione dei disabili avveniva in una cornice fortemente burocratizzata e parcellizzata, senza che vi fosse alcun coinvolgimento emotivo da parte del medico che si trovava a operare: ognuno si occupava di un piccolo segmento dell’operazione, in modo da essere libero da gravosità morali e il rigido sistema gerarchico esentava il sottoposto da qualunque senso di responsabilità. Questo aspetto di “de-responsabilizzazione” dell’azione immorale come annullatore del principio di moralità è stato messo a fuoco dal filosofo Zygmunt Bauman [22]: se l’esecutore è solo un anello intermedio della catena di comando, la sua partecipazione emotiva è nulla, in quanto convinto che la responsabilità della sua azione ricada su una “autorità adeguata”. Inoltre, la martellante propaganda nazista mirava a “de-umanizzare” le vittime [23], in questo caso i disabili, definendoli come un onere sociale, ma anche finanziario, per le casse di uno stato già di per se debole, in modo da trasformare l’omicidio di questi soggetti, in un’azione nobile, umanitaria, perfino in linea con la deontologia medica.

Per ulteriori informazioni, leggi il libro del Dott. Enrico Girmenia (2016): L'eutanasia nazista.

Riassumendo, i processi sociali emersi dai numerosi studi evidenziano che la deviazione comportamentale verso azioni eticamente scorrette, è sostenuta da 6 principi [24]:

  1. La de-umanizzazione della vittima, che viene vista come un corpo inerte, senza diritti, senza emozioni, possibilmente malvagia o comunque meritevole di persecuzione;

  2. L’anonimizzazione di se stessi, con il cambiamento del proprio aspetto o utilizzando un tipo di uniformità che lo renda anonimo e non individuabile (dall’uso di uniformi da parte di gruppi con finalità antisociali al problema della violenza verbale dei social network);

  3. La mancanza di responsabilità per proprie azioni, che possono essere diluite in un gruppo o prese da qualcun altro per via gerarchica;

  4. Obbedienza cieca all’autorità;

  5. Conformazione a-critica alle norme del gruppo;

  6. Tolleranza passiva del male attraverso l’indifferenza.

Ovviamente questi processi vanno contestualizzati ed esaminati da caso a caso: dal mio punto di vista, possono esserci dei cambiamenti caratteriali anche nel singolo individuo, a seguito di eventi particolarmente duri ed emotivamente difficili da gestire, che possono trasformare inclinazioni caratteriali di bontà o l’ingenuità in paranoia, timore e aggressività.

Il pregiudizio può portare a etichettare un individuo come aggressivo solo in base ai suoi caratteri fenotipici, tuttavia bisogna ricordare che la ferocia non è un tratto genetico, ma si apprende con le esperienze.

L’inclinazione personale, la cultura e il ceto sociale non sono sufficienti da soli a generare individui disposti seriamente a commettere atti mostruosi, è necessario ‹‹ammaestrare il corpo a svuotarsi dell’anima›› per poter arrivare a commettere atti di malvagità vera [25], e questo è un processo graduale, e nella maggior parte dei casi, chi lo percorre è convinto di essere nel giusto .

Più vado avanti nel mio viaggio, e più mi rendo conto che la variabilità umana è tale che generalizzare e giudicare un altro uomo o una tipologia di uomini, sia in senso negativo che in senso positivo, senza conoscerne i valori e i trascorsi, sia un atto di profonda ignoranza, dal mio punto di vista, una delle cause dei mali di questo mondo.

AUTORE: Dott. Marco Matteoli, Medico Chirurgo, specialista di Diagnostica per Immagini e Volontario della Croce Rossa Italiana.

BIBLIOGRAFIA

[1] Girmenia, E. (2016). L'eutanasia nazista. Roma: Armando.

[2] Zimbardo, P. (2013). The lucifer effect. New York: Random House.

[3] Milton, J. (2008). Paradise lost. 1st ed. [Waiheke Island]: Floating Press.

[4] It.wikipedia.org. (2017). Lucifero. [online] Available at: https://it.wikipedia.org/wiki/Lucifero

[5] Amorth, G. (2002). An exorcist-- more stories. San Francisco: Ignatius Press.

[6] Blavatsky, H. (2012). The key to theosophy. New York: Barnes & Noble Digital Library.

[7] Crowley, A. (1974). The works of Aleister Crowley. New York: Gordon Press.

[8] Le religioni in Italia. (2017). Satanismo razionalista. [online] Available at: http://www.cesnur.com/satanismo-razionalista/

[9] Le religioni in Italia. (2017). L’Unione Satanisti Italiani. [online] Available at: http://www.cesnur.com/il-satanismo/lunione-satanisti-italiani/

[10] Zimbardo, P. (2007). The Lucifer effect. New York: Random House

[11] Hitler, A. and Murphy, J. (1943). Mein Kampf. London: Hurst and Blackett Ltd.

[12] Weinberg, G. and Friedlander, H. (1996). The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution. German Studies Review, 19(1), p.176.

[13] Thiolay, B. (2014). Lebensborn, la fabrique des enfants parfaits. Paris: J'ai lu.

[14] Schweizer, K. (2012). Hitler: The Abiding Enigma. The European Legacy, 17(6), pp.819-822.

[15] Gerhardt, V. (2011). Friedrich Nietzsche: Also sprach Zarathustra. Berlin: Akademie-Verl.

[16] Stern, F. and Lifton, R. (1986). The Nazi Doctors: Medical Killing and the Psychology of Genocide. Foreign Affairs, 65(2), p.404.

[17] Weikart, R. (2011). Euthanasia in Germany before and during the Third Reich. Journal of the History of Medicine and Allied Sciences, 66(4), pp.597-599.

[18] Hudson, L. (2011). From small beginnings: The euthanasia of children with disabilities in Nazi Germany. Journal of Paediatrics and Child Health, 47(8), pp.508-511.

[19] Strous, R. (2006). Nazi Euthanasia of the Mentally Ill at Hadamar. American Journal of Psychiatry, 163(1), pp.27-27.

[20] Torrey, E. and Yolken, R. (2009). Psychiatric Genocide: Nazi Attempts to Eradicate Schizophrenia. Schizophrenia Bulletin, 36(1), pp.26-32.

[21] Benedict, S. (2003). Killing While Caring: The Nurses of Hadamar. Issues in Mental Health Nursing, 24(1), pp.59-79.

[22] Bauman, Z. (2010). Modernità e olocausto. Bologna: Il mulino.

[23] Lang, J. (2010). Questioning Dehumanization: Intersubjective Dimensions of Violence in the Nazi Concentration and Death Camps. Holocaust and Genocide Studies, 24(2), pp.225-246.

[24] Aprea, L., Aprea, L. and completo, V. (2017). Effetto lucifero. [online] Effettolucifero.blogspot.it. Available at: http://effettolucifero.blogspot.it/2013/01/effetto-lucifero.html

[25] Saviano, R. and Jewiss, V. (n.d.). Zero zero zero.

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