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LE PAROLE sono armi cariche: il potere del linguaggio

Ogni tanto, quando al termine della giornata mi poggio sul letto, mi fermo e penso spesso a ciò che posso aver detto durante il giorno, a quante persone ho fatto sorridere con una battuta, o a quante ne ho fatte innervosire con un'altra, o se magari qualcuno possa essere stato ferito da qualche mia parola. Penso spesso a quanto possano essere potenti le parole, non solo nei rapporti di tutti i giorni, ma anche e soprattutto nell’interfacciarsi con i propri pazienti o con i propri assistiti.

Nel mio cammino formativo, soprattutto nel mondo della PNL (Programmazione Neuro Linguistica), ho avuto spesso a che fare con questo tipo di argomenti, e ho avuto spesso prova del fatto che l’evoluzione delle tecniche e dei mezzi di comunicazione abbia incrementato vertiginosamente la quantità di parole prodotte e le vie per comunicarle, benché abbiano di fatto ridotto la capacità di colloquiare. Come dice il Prof. Lamberto Maffei, neurobiologo, nel suo libro “elogio della ribellione”, le parole sono diventate un potentissimo mezzo, che si affina sempre di più non tanto per imparare a colloquiare con le persone, quanto per imparare a ingannarle; basti pensare alle sofisticate tecniche di comunicazione utilizzate per confezionare delle pubblicità che mirano costantemente a far consumare al di la degli effettivi bisogni individuali, oppure a convincere della veridicità di una tesi al di la della sua effettiva veridicità. Nel corso dei secoli, leader carismatici hanno utilizzato strutture linguistiche che hanno convinto interi popoli o etnie a odiarsi a vicenda senza alcun motivo razionale, come hanno convinto centinaia di persone circa l’eticità del bruciare viva una donna sospettata di stregoneria o del deportare un padre di famiglia di origini “non ariane” in quanto necessario per selezionare una razza superiore.

La PNL ci insegna che le parole sono delle armi, o meglio, dei mezzi per raggiungere un obiettivo, e in quanto mezzi, sono di per se neutrali e possono dunque essere usati sia per aiutare il prossimo che per ferirlo o ingannarlo; tutto questo a discrezione dell’etica dell’individuo che ne fa uso.

Benché da radiologo il contatto con i pazienti sia limitato rispetto a quello che possono avere i colleghi clinici, molto spesso, soprattutto in contesti libero professionali, siamo proprio noi radiologi la prima interfaccia tra una “fredda immagine radiografica” e una possibile diagnosi, fausta o infausta che sia.

Personalmente sono molto critico, in primis verso me stesso, ma anche verso i miei colleghi, quando sottovalutiamo l’importanza di rassicurare il paziente che chiede informazioni circa il suo stato di salute, oppure consigli su come e cosa fare davanti una diagnosi infausta.

Bisogna essere in grado di gestire in primis il proprio stato emotivo, per poter gestire la tempesta emozionale che spesso circonda una persona emotivamente alterata, che in un periodo più o meno breve può diventare completamente irrazionale, caratteriale, irragionevole o addirittura violenta o minacciosa. In questo caso la scelta, non solo delle parole, ma anche di un para-verbale adeguato sono di fondamentale importanza. Ovviamente non sto dicendo che sia semplice farlo, tutt'altro, è necessario fare quotidianamente i conti con i propri demoni e con le proprie debolezze per poter colloquiare con le persone in difficoltà in maniera serena, e non sempre ci si riesce, o per lo meno, io non sempre ci riesco. Inutile dire che anche i rapporti con colleghi, sia medici, che infermieri o soccorritori seguono queste regole.

Immagine: "le parole sono armi cariche"

Nella mia attività di volontario, più volte mi viene fatto notare quanto il mio essere medico spesso mi porti a considerare i miei assistiti come un problema da risolvere, oppure una serie di sintomi da trattare, rispetto un sacco pieno di molecole, tralasciando che spesso il mio assistito senza dimora o migrante, più che desiderare un farmaco o un bicchiere di tè, in quel momento voglia semplicemente essere considerato un “essere umano”, e molto spesso non mi accorgo di quanto una parola superficiale detta in un momento di stanchezza possa rivelarsi più dannosa di quanto un farmaco ben somministrato possa essere risollevante.

Concludo questo articolo con una storia che mi ha sempre appassionato, e che condivido pienamente, una storia che si intitola “i buchi nello steccato”.

<<C'era una volta un ragazzo con un brutto carattere. Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato. Nelle settimane seguenti, imparò a controllarsi e il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì giorno per giorno: aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare i chiodi. Finalmente arrivò un giorno in cui il ragazzo non piantò alcun chiodo nello steccato. Allora andò dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse di levare un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non aveva perso la pazienza e litigato con qualcuno. I giorni passarono e finalmente il ragazzo poté dire al padre che aveva levato tutti i chiodi dallo steccato. Il padre portò il ragazzo davanti allo steccato e gli disse: "Figlio mio, ti sei comportato bene ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato.

Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo, e poi levarlo, ma rimarrà sempre una ferita. Non importa quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà>>.

Sempre a disposizione per chiarimenti e confronti.

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